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Giuliano Procacci, Carte d'identità. Revisionismi, nazionalismi e fondamentalismi nei manuali di storia, Carocci Roma, AM&D, Cagliari 2005 pp. 205

A cura di Vincenzo Guanci

 
Il clamore mediatico intorno al progetto di legge Carlucci sull'istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sull’obiettività dei manuali scolastici di storia sembra essere svaporato al calore della battaglia per le elezioni amministrative di maggio, ma ciò nonostante crediamo utile continuare e approfondire la ricerca sulla concezione  che chi governa ha della storia e del suoinsegnamento.

Il libro di G. Procacci toglie i veli a tutte le ipocrisie sull’obiettività della storiografia manualistica, rivendicata da esponenti della maggioranza governativa contro la presunta parzialità degli storici “disinistra”.

Procacci  dimostra, attraverso un’accurata indagine sui manuali di stati europei, americani e asiatici, “come non esista Stato al mondo che non si preoccupi di indirizzare l’insegnamento della storia e di esercitare una qualche forma di controllo sui testi attraverso i quali esso viene impartito” (p. 9). Infatti la storia, o meglio, il controllo delle informazioni sul presente e sul passato,  è considerato da chi governa uno strumento di importanza capitale per la legittimazione del proprio potere e  la costruzione del nemico come nemico del popolo, derivandone da tutto questo la formazione di un consenso granitico, irrazionale,da “tifoso” piuttosto che da “cittadino”.

Fino agli anni Novanta la storia insegnata era dappertutto “storia nazionale” secondo il modello  prussiano ottocentesco e novecentesco della nazionalizzazione delle masse. Quando in alcuni Stati europei (Francia, Italia, Inghilterra) si cominciavano a tentare nuove strade (una storia a scala europeae mondiale) quelli che Procacci chiama i lastcomers, gli ultimi arrivati, gli Stati post-sovietici e quelli balcanici ebbero bisogno di ricostruire e affermare con forza la propria identità.

La questione dell’identità nazionale diventò per i paesi europei di nuova formazione, come Ukraina, Moldavia, Bielorussia, Croazia,Slovenia  e per i paesi asiatici,mediorientali, africani ex-colonie, la mission principale da attribuire all’insegnamento della storia, non a caso spesso abbinato alle scienze sociali e all’educazione civica come nei paesi islamici.

 

Rispetto alla prima edizione del 2003 presso le edizioni  AM&D di Cagliari, il libro è stato arricchito da un interessante capitolo sull’incontro-scontro tra identità nazionali e identità regionali, analizzando i casi tipici della Spagna con Catalogna e Paesi Baschi, del Canada con il Quebec, del Belgio cui la pur monumentale Histoire de la Belgique del grande Henry Pirenne non ha impedito la tuttora persistente e tenace divisione tra fiamminghi e valloni.

Ma la novità più golosa per i nostri appetiti di docentiitaliani è l’appendice sull’invenzione della Padania. In una dozzina di pagine G. Procacci, utilizzando da storico i filmati delle manifestazioni leghiste,  gli scritti dei giornali e dei siti della Lega Nord,  le dichiarazioni dei suoi dirigenti, mostra e dimostra come la Padania sia un’invenzione, sia pur brillante, funzionale all’ascesa politica di un ceto dirigente, e in particolare del suo capo. Per esempio, quando il 15 settembre 1996 Umberto Bossi legge solennemente la “dichiarazione di indipendenza e sovranità” dei popoli della Padania ai convenuti sul “grande fiume Po” dall’Emilia, dal Friuli, dalla Liguria, dalla Lombardia, dalle Marche, dal Piemonte, dalla Romagna, dalSudtirol-Alto Adige, dalla Toscana, dal Trentino, dall’Umbria, dalla Valle d’Aosta, dal Veneto e dalla Venezia Giulia, “annette” proditoriamente, senza fornire uno straccio di argomentazione,  mezza Italia ad una inesistente nazione padana! Infatti, alla “Padania” non vieneassegnato un territorio preciso, non una lingua, non una storia, e ciò nonostante vari tentativi  esperiti nell’ultimo ventennio in ogni direzione, dai Celti ai Longobardi ai Veneti agli Occitani. Con la conclusione – scrive Procacci – che “è proprio l’evanescenza ed inesistenza della Padania a conferirle credibilità. Una qualsiasi altra denominazione avrebbe urtato radicate suscettibilità cittadine e regionali. Un veneziano non può riconoscersi in una patria che si definisca lombarda o celtica e un milanese consecoli di orgoglio cittadino alle spalle non si riconoscerà in alcuna Insubriané un torinese in alcuna Occitania Piemontesa. Tutti invece possono riconoscersi in una sorta di limbo, di luogo virtuale quale è appunto la Padania. Nelle nebbie della valle del dio Po tutte le vacche sono grigie.”(p.196).

 In conclusione, segnaliamo questo libro alla biblioteca di ogni insegnante di storia che non si accontenta di trasmettere il sapere condensato nei manuali (magari revisionati da una commissione governativa!) ma che affronta in modo intelligente e problematico l’antico dilemma tra Erodoto e Tucidide, tra la storia delle civiltà e la storia politica. Procacci, ma il dibattito continua, sceglie esplicitamente quest’ultima. “Se la storia rimane quel che è sempre stata da Tucidide in poi, il giudizio dello storico continuerà ad essere condizionato, non solo dalla propria formazione culturale e dalle proprie convinzioni , ma anche dalla propria appartenenza a una comunità e in particolare a quella nazionale.” E allora? Dobbiamo rassegnarci ad una storia naziocentrica con un solo punto di vista? “Una via d’uscita esiste.” – conclude Procacci – “Essa consiste nel rifiuto di ogni concezione dell’identità in termini etnici , esclusivi e conflittuali e nel rispetto degli ‘altri’ e dei diversi, chiunque essi siano.”(p. 182).

 

 

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