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DI GIORGIO CAVADI
Il tema del rapporto fra Storia generale e Storia locale così efficacemente sollevato da Maurizio Barbato qualche giorno fa, in un denso quanto appassionato intervento (La Sicilia è una piccola Storia), apre molte questioni che saranno destinate a aumentare il loro grado di complessità nel momento in cui la tendenza a dare spazio a una quota più o meno consistente di”argomenti” su scala locale nei programmi scolastici accanto a quelli nazionali, già avviata dalla Riforma Berlinguer, si incontrerà con gli effetti delle modifiche costituzionali di stampo federalista.
Una prima questione riguarda il rapporto fra le due dimensioni della conoscenza storica, diciamo –su scala spaziale- micro e macro. Indubbiamente è da rigettare l’dea che si possa fare storia locale intesa come storia di campanile, quella per intenderci degli eruditi che proliferano in ogni contrada del bel paese. E allora? Esiste un metodo per connettere la storia locale alla storia generale? Sicuramente un indirizzo è rintracciabile nelle Tesi sulla didattica della storia di Clio 92 (www.Clio92.it), un’associazione che da un decennio lavora nel campo della ricerca sull’insegnamento della storia. Nelle Tesi si legge appunto che. “La storia locale ha valore conoscitivo… come conoscenza della mutevole relazione tra uomini e territorio che assegna continuamente significati nuovi al carattere storico del territorio locale… come consapevolezza della dimensione locale delle storie generali … come sensibilità alla storia dei luoghi estranei e dei gruppi umani che, provenendo da luoghi estranei si sono inseriti nell’ambiente locale” e ancora “Ogni storia generale è più efficace se tiene conto delle differenziazioni locali e se rende comprensibile la dinamica fra centro e periferie, fra fenomeni generali e fenomeni locali”
La strada quindi è quella di una piena integrazione fra le due dimensioni, senza gerarchie e quote, è più, quindi, una questione di metodo e di stili di insegnamento che di programmi; ma andiamo con ordine.
E’ evidente che non si tratta di misurare con il bilancino quanta storia della Sicilia e quanta storia d’Italia, dell’Europa e del mondo, occorra inserire nei programmi scolastici: occorre piuttosto definire quanto la comprensione della storia locale –fosse quella di Bagheria, Bisacquino, Mezzojuso o della Sicilia intera- riceva di apporti dalle storie generali e, di contro, quanto la storia delle periferie rilasci di fondamentale nelle storie generali. Posso cioè pensare di interpretare Portella delle Ginestre, senza considerare –come sfondo e contesto- il secondo dopoguerra in Italia, in Europa e nel mondo? Certamente no, come fra trent’anni lo storico non leggerà il tramonto dell’industria manifatturiera in Sicilia (Termini Imprese) come un fatto di sola scala ragionale, ma lo legherà a ben più complessi fattori congiunturali di dimensione planetaria.
Il riferimento a Portella delle Ginestre non è casuale, ma ci porta ad esaminare un altro aspetto del trattamento delle storie locali ed è quello della relazione fra uomini e territorio mediata dalla memoria. “Di chi è Portella, chi ha diritto a celebrare la memoria di quel luogo?”. Personalmente ritengo che l’esclusione dell’altro sia una scelta miope e un po’ rozza: a Portella può andare chiunque a patto che ci si vada ad onorare le vittime e le idee che le hanno animati; motivo per cui, ad esempio, molti non andranno mai nella propria vita a Piazzale Loreto a ricordare alcunché. Ma questo è solo un aspetto che attiene alla sensibilità politica oltre che storica. Come pure lo è il ventilato cambio di nome di Porto Empedocle-Vigàta, un’operazione che non sai se definire stupida o furba, ma che offrirà certamente reali spunti di riflessione ad uno storico della toponomastica o del costume.
Infine la questione dell’identità. La storia locale è un formidabile strumento formativo nel momento in cui aiuta a riconoscere i tratti distintivi della comunità di appartenenza non –almeno così crediamo- per sancirne l’assoluta superiorità, ma per ben altre ragioni. Innanzitutto, conoscere i caratteri storici del gruppo umano che vive nel territorio di appartenenza, aiuta a prepararsi ad interagire con chi, provenendo dall’esterno deve essere accolto. Tutte le storie locali, sono storie di migrazioni, ingressi e partenze.
In secondo luogo è sulla conoscenza della propria storia che si può comprendere il presente e progettare il cambiamento. Ma qui occorre molta onestà intellettuale e poco calcolo politico. Se infatti uno storico delle mentalità, o delle strutture di lunga durata, dovesse ricostruire alcuni tratti distintivi del “popolo siciliano”, non dovrebbe osservare con forza il coesistere in più epoche, inclusa la presente, del sistema della giustizia privata accanto quella dello Stato? E dei rapporti sempre molto frequenti e ricorrenti fra questo sistema di giustizia privata e la classe politica locale, quanto meno a partire dal XIX secolo? E del prezzo che in termini di sottosviluppo questa anomalia ha portato alla storia della Sicilia contemporanea?
Ed uno storico del paesaggio non dovrebbe scrivere con altrettanta forza del disprezzo dei siciliani, (popolo e politici locali e regionali) per l’ambiente in cui vivono, per i monumenti e l’estetica dei luoghi, considerati cosa di nessuno e quindi depredabili e disprezzabili in ogni modo?
Certo se queste cose (che su questo giornale si leggono quotidianamente, senza ombra di smentita) le troviamo in un libro di testo di una casa editrice di Milano, si scatenano le vestali dell’onorabilità del “popolo siciliano”, e si parte con le mozioni e le commissioni di censura.
Ma quando si dovrà procedere allo studio della storia politica e sociale della Sicilia, delle sue strutture mentali di lungo periodo, alla redazione dei programmi federalisti-autonomisti, e decidere cosa proporre di questa storia nelle aule del viceregno, dobbiamo sommessamente far presente al legislatore che non si potrà solo parlare di ciuri ciuri, vasa vasa, cannoli e cassate.